PROSSIME INIZIATIVE Maggio-Giugno

“Le tecnologie riproduttive rappresentano un’arena di conflitto che attraversa appartenenze politiche e religiose, campi del sapere e movimenti sociali (pensiamo alle fratture nel femminismo e nella galassia Lgbtia Queer). Questo lavoro è frutto di un approccio multidisciplinare: offre contributi di tipo medico, giuridico, sociologico e scritti politici. Ospita idee diverse e anche confliggenti su alcuni nodi riguardanti eterologa e surroga di gravidanza – aprendo interrogativi anche sulle tecniche di fecondazione in vitro, di cui non si possono più tacere i rischi per la salute di bambini e bambine. Un’altra peculiarità di questa raccolta è la presenza di contributi sia accademici sia provenienti dal mondo dell’attivismo – ove persiste la difficoltà di trovare una posizione “mediana” tra il divieto assoluto ben motivato dal fronte abolizionista e un neoliberismo riproduttivo, acritico nei confronti delle tecnologie e dei suoi costi umani. Forse proprio questi ultimi – finora rimossi dal dibattito – possono rappresentare un terreno di ricomposizione politica.”

Organizza: Collettivo Resistenze al Nanomondo

Il nono numero della rivista – in buona parte ancora dedicato alla mobilitazione reazionaria e al rapporto fra tecnologia e razzismo – era già pronto per la stampa, ma le perquisizioni e gli arresti del 19 febbraio ci hanno portato via, oltre a sette compagni (di cui quattro redattori), anche quasi tutti gli articoli. Abbiamo così deciso di ripensare il numero. Continuando i ragionamenti sull’aria che tira, con uno sguardo internazionale, dedichiamo spazio all’analisi dell’operazione anti-anarchica in Trentino (e a Torino), leggendo in controluce le carte dell’inchiesta. A questo aggiungiamo la giustapposizione di un testo di Stig Dagerman e uno di Giulio dal carcere, una lettera di Rupert, delle note sulla virtualizzazione del mondo nell’èra della democrazia digitale e una riflessione dal taglio utopico sull’opposizione tra libero accordo e legge. Ne è venuto fuori qualcosa a metà tra il numero monotematico e un bric-à-brac di pensieri.

Una rivista anarchica con quattro redattori in carcere, uno latitante e gli altri indagati a piedi libero ci sembra una sorta di fotografia dello stato della critica rivoluzionaria. Una conferma della necessità di chiarirsi le idee, di capire come andare avanti, e con chi.

Come cerchiamo di approfondire nelle pagine che seguono, siamo di fronte a un’accumulazione sempre più rapida di repressioni selettive contro quelle minoranze che in un modo o nell’altro disturbano il quadrante dei comandi, le cui mosse più pericolose e gravide di conseguenze non sono quelle strillate, ma quelle mute. Le ingiunzioni dell’Apparato producono un fascio di reazioni condizionate nella vita quotidiana che poi la Reazione mobilita nella difesa servile e rancorosa dell’ordine sociale. Come in tutte le fasi di profonda ristrutturazione – pensiamo, per quanto riguarda l’Italia, al periodo a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – lo Stato ha bisogno di armare la classe proprietaria. Ai ceti più vigliacchi, silenziosi quando le lotte sono in posizione di attacco, l’attuale ideologia sovranista – che sembra coniugare l’arroganza neoliberale di un Reagan e di una Tatcher con il collettivismo nazionalista di un Putin – offre una prospettiva di potere. A quel blocco sociale reazionario che in questo Paese è sempre esistito – e che nella spietata competizione del capitale globale ha la funzione della variabile passiva e intercambiabile –, il Capitano con la maglia della polizia (calcio e spirito di caserma insieme) fornisce la coesione dell’orda. Da questo punto di vista la legge sulla legittima difesa e quelle sulla famiglia vanno lette assieme. Il maschio proprietario deve poter sparare ai ladri e ristabilire il proprio comando sulla moglie e sui figli. “Dio, famiglia e proprietà” è da sempre lo slogan di quel clerico-fascismo che dal Brasile di Bolsonaro all’Italia di Salvini e Fontana esprime l’ideologia del fazendero e del bottegaio. È in tal senso che va compreso il linciaggio mediatico a cui è stata sottoposta la figura di Battisti. Al di là delle scelte successive e delle attuali scuse dell’ex militante dei PAC, la gogna forcaiola e l’esibizione del trofeo Battisti hanno il significato di una vendetta a freddo contro quei proletari che alla fine degli anni Settanta avevano risposto con le armi all’armamento di una classe proprietaria che cominciava a sentire, con la polizia schierata come truppa di occupazione nei quartieri, con le carceri speciali e la tortura riservate ai rivoluzionari, che il peggio era passato. Ora quella vendetta, comoda, vigliacca, a senso unico, può esprimersi con la copertura esplicita del ministro degli Interni.

Stanno cercando di metterci all’angolo. Proprio per questo non bisogna né demordere né appiattirsi sulle lotte e sulle risposte immediate. Dare alla resistenza il respiro di una prospettiva, all’attacco il calore del mondo per cui ci battiamo, dell’utopia – questo l’ossimoro vivente che dobbiamo imparare a diventare.

Come abbiamo detto, scritto e urlato in questo mese, se i compagni arrestati sono “innocenti” hanno tutta la nostra solidarietà, se sono “colpevoli” ce l’hanno ancora di più.

Un pezzo dei nostri cuori è dietro le sbarre. Per certi legami non esistono parole. Li può capire solo chi ha assaporato quelle avventure collettive che spingono gli individui a dare il meglio di sé, fieri e orgogliosi di chi si ha al proprio fianco.

Da Giovanni Passannante a Gaetano Bresci, vent’anni di vendetta, individuale e di classe. Non solo una raccolta cronologica ed enciclopedica degli attentati anarchici alla vita dei tiranni che hanno terrorizzato i governi di fine Ottocento, ma anche un necessario approfondimento sul contesto economico, sociale e politico dell’Italia post unitaria, con uno sguardo anche sul novantaquattro francese. Una guerra a mano armata dichiarata da una minoranza di sfruttati allo Stato liberale. Quello stesso Stato che non si faceva scrupoli a torturare, incarcerare, confinare, cannoneggiare e soprattutto difendere una società nella quale milioni di contadini vivevano in una condizione spesso al di sotto della sussistenza e nelle metropoli gli operai venivano letteralmente consumati dalla nascente macchina capitalista. Ben prima del fascismo, la tanto osannata Unità d’Italia viene fondata sul sangue della gran parte delle popolazioni. Lo sfruttamento, fino alla morte, la repressione crudele, non sono esclusivo appannaggio di uno Stato totalitario o di una fase eccezionale della vita politica, bensì sono elementi fondativi di questo dannato Paese e di ogni forma di governo. Vorremmo che questo libro non rimanesse negli scaffali a prendere polvere, un feticcio da collezionare nel pantheon dello storico di professione o di diletto. Vorremmo che questo libro non rimanesse lettera morta. Che le gesta di questi indomiti compagni illuminino ancora, col loro esempio, la strada di chi non si rassegna allo stato di cose presenti.